Parmigiano Reggiano, quando tecnologia e multifunzionalità diventano qualità

 

PARMA Spesso innovazione e tecnologia sono percepite come modalità antitetiche rispetto ai concetti di tipico, multifunzionale, tradizionale. Qualcuno intravede addirittura come una frattura, un “solco” nel mondo agricolo tra le imprese produttive classiche e la frontiera di chi si propone di fornire una m olteplicità di servizi territoriali, insieme ai prodotti di base. In realtà, è proprio questa visione scissa

ad essere fuori tema: per convincersene basta fare un giro in aziende come quella di Giovanni Leoni.
Giovanni ha 43 anni e conduce, con l’aiuto di un salariato fisso e alcuni stagionali, un’impresa agricola d’eccellenza: 190 ettari (di cui una buona parte dedicata a colture orticole in pieno campo), la stalla con 100 bovine in lattazione per la produzione di Parmigiano Reggiano, il caseificio aziendale. Potrebbe bastare, ed invece ecco il punto vendita per il Parmigiano, la fattoria didattica, e in prospettiva la struttura agrituristica da dedicare ad itinerari eno-cultural-gastronomici nel territorio parmense.


Un’azienda grande e complessa, tante attività diverse anche se complementari: come ci riesci?
Mettendo a sistema tutti gli ultimi ritrovati tecnologici, l’elettronica innanzitutto. Con un investimento di circa 100 euro a capo, tutte la attività di stalla sono informatizzate e gestite tramite computer: dalla rilevazione dei calori alla gestione dei cancelli separatori, dalla definizione della razione alimentare alla registrazione delle performance produttive. Tutte le funzioni potenzialmente collegabili sono gestite tramite il calcolatore. Manca solo il robot di mungitura... Io sarei propenso, ma qualcuno sostiene che non è conciliabile con un prodotto tipico. Mi domando se sia più tipica la mungitura due volte al giorno da parte di un lavoratore indiano o sei volte al giorno da parte di un robot: in fondo, in natura, il vitello si attacca alla mammella materna almeno otto volte nelle 24 ore...


Ma cos’è quindi che rende unico questo prodotto, cosa lo collega ad un territorio preciso, consentendone la tutela?
Il dato primario è la qualità dell’alimentazione: è la composizione della razione che determina le caratteristiche organolettiche dei Parmigiano; ma produrre più latte solo con l’erba non è possibile, serve più energia e quindi la quota di mangimi aumenta. È questo l’elemento che fa evolvere proprietà e sapori del prodotto finito. Nel rapporto tra modalità di allevamento, alimentazione e natura organolettica del prodotto finito sono cambiate molte cose: un tempo alla stalla corrispondeva il prato stabile intorno a casa, il foraggio fresco era quindi disponibile con minor fatica, il letame tornava direttamente dalla stalla al prato stabile. Era un ciclo chiuso, caratterizzato dal maggior risparmio energetico possibile, una relazione basata sull’ottimizzazione ergonomica delle varie componenti. Ma una volta il parmigiano si produceva solo per nove mesi l’anno: in inverno si otteneva il “vernengo” e a maggio, con il primo taglio dei foraggi il “maggengo”: erano sapori diversi, perché diversa era la composizione alimentare. Oggi questa diversificazione non c’è più: la destagionalizzazione dei parti delle bovine, l’utilizzo del solo foraggio secco, l’evoluzione genetica del bestiame... Quindi bisogna intendersi con chiarezza quando si parla di qualità: il Parmigiano Reggiano di oggi è diverso da quello di 50 anni fa: è cambiato il colore, il sapore, i casari sono molto più preparati, e il formaggio ha una qualità organolettica ed alimentare più elevata...


E perché, nonostante queste doti che ne fanno il biglietto da visita della cucina italiana nel mondo, le vendite e i consumi calano?
Perché tutti mangiamo meno a casa e le cucine domestiche lavorano la metà di un tempo. La ristorazione di massa e il catering difficilmente usano materie prime di prima qualità: bastano prodotti standard, meno cari. Quindi almeno metà dei pasti esce dalla potenzialità di un prodotto di base agricolo di alto livello. Ma anche le altre forme di commercializzazione non aiutano: il Parmigiano Reggiano viene presentato nel cellophane, in mezzo ad altri prodotti industriali di media o bassa qualità. Eppure si tratta di un prodotto di eccellenza: forse che lo Champagne millesimato viene esposto in mezzo alle birre di primo prezzo o che per il Brunello di Montalcino si fa il 3x2? Deve proprio cambiare l’approccio commerciale per poter chiedere al consumatore un maggior apprezzamento dei vertici della nostra tradizione alimentare. Anche per questo abbiamo fatto la scelta del caseificio aziendale e della vendita diretta: tramite il punto vendita aziendale passa il 25% del nostro prodotto, mentre il restante viene venduto direttamente a negozi, ristoranti della zona, altri clienti, ma non a grossisti. La filiera paga solo se resta corta.


Quali prospettive si presentano per questo comparto produttivo?
Purtroppo mancano gli investimenti sul futuro. Un esempio per tutti: i lavoratori stranieri stanno da noi per qualche tempo, poi tornano nelle loro terre, e tutto quello che hanno imparato, le tecniche che hanno apprese, vanno disperse. Mancano le possibilità concrete che un prodotto di grande storia possa perpetuarsi nella formazione di una cultura produttiva locale. Come fa, ad esempio, un casaro, che nella sua quotidianità alimentare non usa il Parmigiano Reggiano, a sapere se il prodotto che ottiene è buono o no? Un altro elemento fondamentale è quello culturale: il consumo dipende dal gusto che si educa fin da bambini. Per questo è fondamentale agire sulle giovani generazioni. Nella fattoria didattica spieghiamo ai bambini tutta la filiera del Parmigiano: dalla stalla alla caldera, dalla stagionatura al taglio fino alla degustazione. Se non comunichiamo all’esterno, ai giovani, se non siamo in grado di trasmettere il patrimonio delle nostre conoscenze agricole e alimentari, andranno disperse.

Tutto importante: ma i conti tornano? Si fa ancora reddito con la zootecnia da latte?
Oggi i prezzi sono molto bassi, insufficienti a produrre reddito. Con gli attuali costi di produzione si arriverebbe al pareggio con circa 8,8 euro al chilo di parmigiano. Gli 8 euro o meno (ndr. dato febbraio 05) di questi mesi sono assolutamente insufficienti. Oggi si verificano due condizioni negative: minimo prezzo del prodotto finito e massimo costo delle materie prime. Un supporto indispensabile è giunto con il contributo comunitario legato alle quote latte. In queste situazioni si cerca di risparmiare, a scapito della qualità, con conseguenze di lungo periodo sul comparto. Senza reddito si fa meno formazione, si cercano materie prime meno valide e più economiche, si cura meno la lavorazione. In ogni caso, non ci sono alternative: solo il prodotto tipico avrà futuro per il nostro sistema, perché rappresenta un territorio tipico, una cucina tipica, e quindi una vita tipica.
Un messaggio chiaro che Giovanni Leoni ha tradotto in strategia d’impresa per la sua azienda, che coagula dimensioni, produttività e tecnologia d’avanguardia con il recupero dei valori tradizionali della campagna parmense.

Alessandra Furlani